Misia

Misia

Questa storia si compie in un tempo e in un luogo in cui alle donne era concessa la condizione naturale di figlia e poi di moglie, madre o al più di monaca.

Misia era nata diversa. Sua madre nel darla alla luce aveva fatto appena in tempo a guardarla negli occhi. In quel magico istante in cui si erano trovate, l’una che arrivava e l’altra che andava, si erano viste, riconosciute, amate. L’una negli occhi dell’altra avevano percorso la vita passata e quella futura di entrambe.

Misia avrebbe portato per sempre dentro di sé l’amore di quella donna che si era serenamente spenta tenendola sul petto, consentendole di sentire fino all’ultimo il battito del suo cuore che l’aveva accompagnata nel grembo materno. Suo padre, seppur devastato dal dolore per la perdita del suo unico grande amore, venne richiamato subito ai doveri paterni dal pianto della piccola che richiedeva le sue attenzioni. Erano due solitudini che si fecero uno, crebbero insieme, ciascuno secondo la propria condizione.

Giovanni non si risposò come si sarebbe convenuto, scelse di dedicare la sua vita all’arte e alla sua unica figlia per la quale fu padre e madre prima, e poi anche maestro. Amare Misia fu cosa facile per lui, aveva la grazia e la bellezza di sua madre e al contempo un temperamento forte mascolino, una determinazione che gli ricordavano se stesso da giovane ma con un’intelligenza viva e acuta che a lui era mancata. Un padre qualsiasi avrebbe ricusato una figlia così spregiudicata nell’essere se stessa fuori da ogni schema o convenzione, Giovanni invece comprese e accettò quella sua natura libera e si occupò amorevolmente di lei proteggendola dalle cattiverie del mondo.

Misia crebbe, accolta e amata, naturalmente, in un’isola felice, quella della casa paterna, senza accorgersi della sua diversità. Le sue giornate trascorrevano in questo feudo protetto, dove ad eccezione della governante circolavano in buona sostanza uomini: committenti, fornitori, aiutanti o allievi di suo padre. Giovanni era un’artista intagliatore molto rinomato in tutta la regione, tanto che nemmeno la stramberia di tener a bottega sua figlia diminuì le sue commesse.

Era un mestiere per uomini che richiedeva mani forti, ma Misia le aveva, abili soprattutto, le muoveva con maestria e grazia insieme. Nel disegno dei bozzetti poi si distingueva per tecnica e ideazione. Nessuno dei suoi allievi la eguagliava, Giovanni l’aveva osservata con orgoglio muovere i suoi primi passi in bottega. Viveva sentimenti contrastanti tra la fierezza per essere il padre di quel fiore raro e il cruccio che non fosse nato maschio per la preoccupazione del destino che l’attendeva. Come ogni donna avrebbe dovuto maritarla, condannandola ad un destino infelice, lei che era nata artista. Allora rimandava aspettando che il cuore di Misia si aprisse per un uomo, sottraendosi così a quel penoso compito di decidere per lei.

Sua figlia non era una ragazza dal cuore semplice, non le aveva mai colto uno sguardo di tenerezza verso uno dei tanti allievi che erano passati per la sua bottega, sembravano non interessarle, li trattava come pari, quasi come fosse stata una di loro, e in un certo senso lo era. Aveva respirato l’odore dei trucioli fin da quando era in fasce, muovendosi tra gli attrezzi del papà come fosse per lei una stanza dei giochi. Per quei manufatti intagliati, solo per loro aveva visto in Misia quello sguardo rapito che avrebbe desiderato rivolgesse ad un uomo. Era preoccupato per lei, gli anni passavano e lui invecchiava, non avrebbe potuto proteggerla per sempre. Iniziava a dubitare di aver agito per il suo bene assecondando la natura di Misia, lasciandola illudere su un qualcosa che non si sarebbe mai potuto verificare: ereditare l’attività paterna. Senza di lui la ragazza non aveva alcun futuro come artista e tantomeno come donna se non si fosse decisa a convolare a nozze.

Misia non passava inosservata, non era semplicemente bella, era carismatica, di una grazia e bellezza che dall’interno si alimentava illuminando l’esterno. Suo padre che la conosceva bene coglieva questa corrispondenza che i più appena intuivano ma in ogni caso ne restavano catturati. Le sue risate e la sua schiettezza disarmante risultavano inevitabilmente affascinanti per quei giovani che con lei condividevano l’apprendimento del mestiere dell’intaglio. Molti le morirono dietro ma lei non sembrò nemmeno accorgersene, uno in particolare le fece una corte serrata e Misia perfino infastidita da tanto insistere lo rifiutò quasi umiliandolo. Per lei fu come uno scherzo, che le costò molto caro.

Il ragazzo, scarso di intelletto, capacità e soprattutto d’umiltà, interruppe l’apprendistato non accettando un simile rifiuto. La fanciulla non era di certo alla sua portata e ci volle poco per farlo sentire cavaliere senza cavallo. Ma ancor peggio nascondeva un animo mediocre che lo spinse ferito a far circolare voci sull’onestà della ragazza che a lui si era concessa come ad altri prima. Nessuno ebbe a dubitare di tali insinuazioni che la diversità di Misia alimentava. La calunnia iniziò a serpeggiare appiccicandosi addosso alla fanciulla divenendo per gli abitanti del villaggio la sua vera natura. Né lei né suo padre si accorsero di quanto si stava preparando fino a quando bussò alla loro porta un giovane che da una regione lontana, raggiunto dalla bravura di Giovanni, veniva a chiedere di imparare il mestiere.

Misia si innamorò e lui perdutamente di lei. A suo padre il ragazzo piaceva, e ringraziò Iddio per quell’incontro che sembrava benedetto dal cielo: vide il matrimonio felice, un erede maschio che avrebbe potuto portare avanti la bottega lasciando lavorare la moglie al suo fianco.

Ma Misia era nata diversa. Il suo cuore onesto, ignaro delle regole sociali se non delle proprie, si lanciò d’istinto tra le braccia del giovane. Questi per quanto l’amasse, per quanto fosse d’animo gentile e nobile, viveva nel mondo comune e l’ardore spontaneo dell’amata gli sembrò inconciliabile con l’immagine della fanciulla illibata che serbava di lei. I dubbi andarono in cerca di prove che smentissero o malauguratamente confermassero. Una cascata di voci insinuati, dalla locanda in cui alloggiava a chiunque avesse chiesto informazioni in confidenza, riempirono le orecchie e il cuore del giovane avvelenandolo.

Partì per non farvi più ritorno, con l’amaro sentimento nel petto di aver rischiato un raggiro da parte di un artista che stimava e da un’abile cortigiana dagli occhi innocenti che lo aveva irretito. Non lo rividero più. Il cuore di Misia si spezzò. Giovanni seppe la verità ma non la rivelò a sua figlia che amava, volle a suo modo proteggerla, preferì lasciarle credere nella sola crudeltà del giovane piuttosto che del villaggio intero.

L’intaglio e l’amore di suo padre furono come un balsamo per la fanciulla. La ferita poco per volta si rimarginò, inghiottendo nelle profondità il dolore che aveva dilaniato il suo candido cuore. Misia ritrovò la gioia, la luce ricomparve nei suoi occhi, le risate ritornarono a risuonare tra le stanze della casa paterna. Giovanni si sentì sollevato dal timore che sua figlia avesse perso per sempre la sua natura. Presto però insieme al sollievo ritrovato si riaffacciarono in lui le antiche preoccupazioni che adesso si fecero assillanti nella consapevolezza di quella nuova condizione che gli si era palesata: nessuno avrebbe più preso in sposa Misia. Il suo destino di miseria era segnato!

Che fosse arrivato il suo tempo o che fossero stati questi pensieri angoscianti a logorarlo, Giovanni si ammalò irreparabilmente. La fanciulla si prese amorevolmente cura di suo padre. Cucinava per lui, lo coinvolgeva nella progettazione di lavori futuri, chiamò in consulto luminari da ogni angolo del mondo da lei conosciuto. Cercò in tutti i modi di sottrarlo alla morte che sembrava ostinatamente rimanere in attesa al loro fianco. Giovanni, nella disperazione di lasciare sua figlia ad un infelice destino, fece resistenza finché ogni fibra del suo corpo non cedette al peso dell’inesorabile.

Arrivò il momento del commiato. L’uomo con un filo di voce chiese perdono a sua figlia, mentre Misia disperata tra le lacrime misericordiosamente glielo concesse pur non comprendendo cosa mai quest’uomo per lei perfetto avesse da farsi perdonare. Giovanni, aveva fino all’ultimo cercato di proteggerla non rivelandole ciò che sapeva, voleva risparmiarle un inutile dolore, metterla a parte della verità non avrebbe cambiato lo stato delle cose. Se ne andava portandosi con sé la colpa: avrebbe dovuto maritarla in tempi non sospetti, nel pensare di fare il suo bene, l’aveva condannata ad una vita di disgrazia. Spirò senza trovare pace e la sua anima inquieta rimase a vegliare su sua figlia così come le aveva promesso in punto di morte: che non l’avrebbe lasciata sola.

Con lui perdeva tutto, un padre, una madre, un maestro, l’amore incondizionato di uomo che solo l’aveva vista e compresa per quello che lei era. Distrutta dal dolore vagò per giorni in uno stato di profonda prostrazione, con l’ombra di suo padre che la seguiva ovunque.

Ma Misia era diversa. Trovò nelle viscere del proprio io la forza per riemergere dalle ceneri, di ritrovare se stessa, di trasformare quel dolore che avrebbe potuto annichilirla in nutrimento per la sua arte. Partoriva opere come colta da ispirazione divina, intagliava a quattro mani, le sue e quelle di suo padre che sentiva sempre accanto a sé. La sua anima si espanse e suoi occhi ne testimoniavano l’essenza. Misia non era alta, ma la sua figura appariva imponente per l’energia che emanava, una commistione di forza, grazia e fierezza. Mise soggezione a chiunque si spinse in quel feudo protetto nel tentativo di cogliere quel fiore esotico di cui tanto si sparlava, cercando di approfittare della sua condizione di nubile senza un padre a garantirle una rendita certa. Lei sembrava non accorgersi di nulla.

Iniziò come un pellegrinaggio di uomini a bussare alla sua porta, tutti con lo stesso intento, celibi e coniugati, arrivavano con vivande in dono o con promesse per l’acquisto dei suoi manufatti nella convinzione di ricevere per riconoscenza in cambio l’ambito premio. Rimasero delusi. Erano tempi in cui gli uomini si prendevano le donne che volevano eppure nessuno di loro ebbe l’ardire di farlo trovandosi davanti Misia, a quel suo sguardo che entrava dentro e spogliava anche il più ritroso degli uomini. Le lasciarono vivande e denari per opere che non si preoccuparono mai di ritirare. L’orgoglio di tali uomini mediocri e codardi gli spingeva tutti, chi più chi meno, con racconti piccanti a vantarsi di aver colto il fiore. Uomini e donne chi per mediocrità chi per codardia non potevano tollerare una tale diversità che sfidava oltraggiosamente le regole del vivere comune. Così che la maldicenza finì facilmente per radicarsi nell’immaginario dell’intero villaggio: Misia l’artista, donna diversa si coniugò con meretrice.

Lei, sebbene l’addolorasse vedere quelle opere impolverarsi invece di risplendere nei luoghi per i quali erano destinate, per la gioia degli occhi e dell’anima, ringraziava comunque quella protezione celeste, ignara della condanna che pendeva sul suo capo. Fino a quando non udì senza volerlo una conversazione tra la sua governante e l’amica che era venuta a farle visita. Persino lei che l’aveva vista crescere e le viveva affianco ogni giorno dubitava della sua onesta!

Fu una rivelazione fulminea e sconcertante. Cadendo in un sol colpo il velo dell’illusione in cui aveva vissuto, la realtà gli si presentò brutale. Comprese quanto suo padre l’aveva amorevolmente protetta e la sua richiesta di perdono. Arrivarono per lei notti insonni e giornate avvolte nella nebbia in cui il suo sguardo si perdeva nel vuoto come in cerca di un qualcosa di inafferrabile, un punto a cui aggrapparsi che non c’era. Fu in questo stato che la trovò l’uomo che brutalmente la colse.

Una notte si fermò alla locanda del villaggio uno dei tanti avventori di passaggio, un predatore senz’anima che viveva di espedienti senza fissa dimora, oggi qua domani là, di villaggio in villaggio in cerca della preda di turno. Sedeva solo, festeggiando con grosse bevute il suo ultimo saccheggio. Avvoltoio mai sazio, rubava le conversazioni dai tavoli accanto e con orecchio acuto ascoltò ogni squallido particolare che i miseri calunniatori si prodigarono a raccontare su Misia: una donna sola, bella e disponibile che lo attendeva per coronare i suoi festeggiamenti! Finita la sua sete, pagò con soldi non suoi e si accinse rapido a raggiungere il luogo in cui placarne l’altra.

Misia, estraniata da giorni, schiacciata da quella realtà il cui peso ora sembrava concretizzarsi in quell’uomo che incombeva su di lei per violarla, quasi non ebbe la forza per reagire. Per istinto si oppose, gridò, cerco di divincolarsi, ma poi spezzata nell’anima cedette inerme alla violenza dell’uomo. Nel tentativo di portarsi altrove, sentiva lontano il suo odore acre e l’alito alcolico, ma vicino purtroppo quel dolore fisico che rinnovava l’altro. Accettò il suo martirio lasciandogli prendere quel che voleva. Solo quand’ebbe finito il balordo si accorse di quanto era accaduto. Si apprestò a fuggire, mentre la governante richiamata dalle grida era accorsa nella camera della padrona.

La casa di mastro Giovanni era la prima entrando al villaggio, e in quel momento vi giungeva dopo un lungo cammino l’amore di Misia. Il giovane era stato raggiunto dalla notizia della morte del maestro e dopo una prima titubanza un qualche sentimento lo aveva spinto ad intraprendere il viaggio.

Un cavaliere lanciato al galoppo gli passò accanto e non gli sfuggì che l’uomo fosse uscito proprio dal portone di mastro Giovanni. Un brivido freddo gli salì lungo la schiena, anche la porta di casa era aperta, corse le scale a due a due con il cuore che gli usciva dal petto e la testa che già gli scoppiava per i pensieri d’orrore.

Con il capo riverso Misia giaceva inerme tra il groviglio delle vesti strappate e delle lenzuola lordate di sangue che ancora caldo scorreva lungo le sue cosce. Si girò a guardarlo ma persa nell’abbrutimento subìto non lo riconobbe. Vide nello sguardo di lei tutto il dolore, l’ingiustizia patita, la morte della sua anima. Si spezzò anche lui, per quel fiore speciale che non aveva riconosciuto, compreso, difeso. L’aveva abbandona al suo destino, non confidando nel suo amore ma nei dubbi che avevano avvelenato il suo cuore.

Lo trovarono in fuga all’alba nel villaggio accanto, ma nemmeno l’impiccagione del vile predatore restituì agli animi mortificati di tutti la salvezza e la pace ormai perduta.

Questo racconto è prima di tutto un omaggio ad Artemisia Gentileschi, pittrice del 1500 ultimamente divenuta nota anche al pubblico dei non addetti ai lavori. In comune con la protagonista del nostro racconto ha prima di tutto il nome (Misia è un chiaro diminutivo), l’essere artista e l’aver subito uno stupro in un contesto di maldicenze che la condizione di diversità alimentava. Per il resto il racconto è liberamente ispirato.

La Gentileschi aveva un padre pittore che le rimase accanto nel processo contro lo stupratore, l’uomo amico e collega paterno, non poteva riparare al maltolto perché come si scoprì in fase processuale era già sposato. Da procedura la giovane venne persino torturata (alle mani per lei strumento indispensabile di lavoro) per estorcerle la verità; la controparte ovviamente affermava che fosse consenziente. Alla fine condannato, lo stupratore non venne beffardamente mai punito in un processo farsa indetto dallo stesso papato per il quale continuò a lavorare indisturbato. Ad Artemisia rimasero le calunnie che abbondanti vennero fuori in fase processuale e le rimasero appiccicate addosso per sempre. Il padre riuscì a sposarla sborsando un ingente somma di denaro, un matrimonio d’interesse e infelice. Il dolore fu per Artemisia fonte di ispirazione per la sua arte per la quale visse tutta la sua vita.

Misia vive in epoca medievale, un tempo in cui alle donne di un certo rango era consentita ancor meno autonomia delle donne del 1500, eppure certe cose non sono cambiate nemmeno in tempi più recenti. Tanti passi sono stati fatti e si cerca ancor oggi di compiere in merito alla violenza sulle donne. Ma non è di questo che voglio parlare, su cui ci sarebbe comunque tanto da dire, non qui però.

Vorrei invece porre l’attenzione sul tema diversità, perché è la diversità che accomuna queste due donne, diversità che le fa percepire come delle dissidenti, una minaccia per le regole del vivere comune. Il più delle volte sono le donne vittime di certe discriminazioni, come in questo racconto, perché sono spesso soggetti fragili in questa società da millenni patriarcale. Ma la diversità che alimenta la maldicenza può colpire anche gli uomini e tutti coloro che osano esprimere se stessi oltre l’omologazione.

La diversità spaventa, fa paura per mediocrità e codardia a chi non osa essere e preferisce la sicurezza della regola. Eppure se le regole sociali per un vivere civile sono necessarie, d’altro canto non dovrebbero negare a nessuno la libertà individuale di esprimersi secondo la propria natura qualora non si arrechi danno al prossimo. E così sarebbe se non esistessero ancor oggi quelle regole tacite atte a generar maldicenze per chi osa tenersene fuori.

Ho scelto volutamente di lasciare il finale nel compiersi del dramma proprio per porre l’attenzione sulle conseguenze che le maldicenze portano con sé, lo stupro può essere una di queste, ma non solo. Sono a tutti gli effetti delle violenze, anche di gruppo quando chi le compie non è un singolo individuo. Creano danni psicologici a vari livelli in chi le subisce, che non sempre è in grado di difendersi o per incapacità di strumenti o perché impossibilitato a farlo.

La calunnia è un venticello che sale poco a poco” canta il “Barbiere di Siviglia” nell’aria di Gioacchino Rossini, e piano piano quel vento può diventare un uragano. Pensateci la prossima volta che vi venisse in mente di dire qualcosa su qualcuno, anche che vi appaia cosa innocente, qualora non ne siate veramente certi. E voi che ne siete vittime sappiate che prima o poi la verità verrà fuori sebbene a volte si presenti con un tragico finale.

Immagine: Susanna e i vecchioni di Artemisia Gentileschi