Maschere

Maschere

Si spingeva senza meta tra i sentieri di un parco che aveva visto le sue pause-pranzo dal lavoro veloci e tristi. Il verde degli alberi, dei prati, delle siepi che accompagnavano i viali, era stato sempre lì a guardarlo mangiare i suoi miseri panini e lui non lo aveva degnato di alcuna attenzione. Poi improvvisamente era diventato la cornice romantica dei suoi giorni più felici, come mai gli era capitato in tutta la sua vita. Adesso era ritornato grigio, spento, come l’uomo che trascinava in giro nelle mattinate disoccupate, quell’estraneo con cui sapeva avrebbe dovuto fare i conti prima o poi ma ogni volta che avrebbe voluto provarci lo stomaco gli remava contro chiudendosi in spasmi, mentre la testa vuota non collaborava e il cuore nel mezzo sembrava fermo. Solo le gambe camminavano, andavano autonome e lui le seguiva come aveva fatto sempre, seguire qualcuno.

Camminava per lo più a testa bassa, seguendo le punte dei suoi piedi nella loro alternanza, in quel movimento che si faceva ipnotico e lo conduceva altrove, un altrove indefinito però, non un posto piacevole o speciale, perché Alberto non sapeva proprio dove andare.

Ad un tratto tra i piedi e la strada si frappose una panchina che decise per loro la sosta. Continuava a guardarsi le punte, sembrava matto. In ventiquattr’ore tutta la sua esistenza era andata in frantumi, quindi matto poteva essere la parola giusta. Le nevrosi erano state le lesioni premonitrici in quelle maschere di vetro che aveva messo su con tanto zelo, per poi vederle con una sola scossa sgretolarsi davanti ai suoi occhi senza poter far nulla, senza voler far nulla, senza sentire più niente.

Aveva creato cinque belle maschere ma era stata la quinta a procurargli dei problemi. Se non fosse stato per lei forse avrebbe continuato all’infinito, oppure sapendo a cosa andava incontro si sarebbe fermato alla quarta. Una di loro glielo aveva pure detto che si trattava di un gioco rischioso, forse la prima o la seconda, in ogni caso lui non aveva voluto ascoltarla e si era arrivati all’inevitabile.

La prima era per i suoi parenti stretti, plasmata sulle donne della sua vita, sua madre e sua moglie. Perfezionata su quest’ultima nel corso degli anni. Era l’Alberto responsabile, disponibile, remissivo, succube della donna di turno, a cui contento delegava ogni decisione, una seccatura per lui il decidere di questioni domestiche e affini. Dalle bollette da pagare ai pesi da spostare, passando per rubinetti da riparare e lampadine da sostituire, erano sue tutte le incombenze pratiche dell’uomo di casa, in quelle se ne stava al sicuro facendosi animale da soma in cambio di una ciotola da mangiare e un tetto sulla testa.

L’aveva sposata non per amore, non sapeva cosa fosse, ma le piaceva. Era arrivato il momento di sistemarsi come gli aveva suggerito sua madre, e Sonia si era trovata lì al momento giusto al posto giusto. Una ragazza carina, di buona famiglia, che portava in dote la casa. Parlava un po’ troppo e ad una tonalità non sempre gradevole ma si disse che le donne più o meno son tutte così, parlano. Una volta sposati tra il lavoro e il resto non avrebbe dovuto ascoltarla tutto il tempo come gli toccava da fidanzati. Con gli anni aveva imparato a volerle bene, così come se ne vuole ad un luogo caro in cui nulla può turbarci, dove ogni cosa è al suo posto, ogni gesto si ripete routinario e gli odori avvolgono in quella comodità che ci tiene al riparo dalle incertezze della vita. Certo noiosa ma all’Alberto di casa non dispiaceva affatto, anzi in quella routine le sue nevrosi trovavano la massima accoglienza.

Fuori di lì, al lavoro, indossava la quarta, passando brevemente per la terza lungo il tragitto che lo separava dall’ufficio: un saluto al portiere, ad un vicino di casa per un cortese buongiorno, una gentilezza ad una passante. La terza era la maschera delle relazioni occasionali, in cui poteva mantenere il grigio anonimato dietro convenzioni e azioni ridotte all’osso che lo tenessero nell’invisibilità al riparo dal giudizio altrui, lo temeva conoscendo il suo, implacabile verso le diversità degli altri ma ancor più verso se stesso a cui non concedeva alcuno spazio.

Sul lavoro si trasformava, diventava un aguzzino, si faceva odiare da tutti, ed era esattamente ciò che voleva: potersi concentrare esclusivamente sulle sue carte senza interruzioni e scocciature, e via ogni rottura di dover invitare colleghi a casa per pranzi o cene formali! Sua moglie all’inizio ci aveva pure provato ma dietro le ferme opposizioni del marito aveva deciso di lasciar perdere, non aveva voluto approfondire su cosa si celasse dietro quel suo insolito sguardo feroce di categorico rifiuto. Ben consapevole di quanto lo avesse in pugno non avrebbe voluto rischiare di perderlo per indagare, decise quindi di concedergli un piccolo spazio di resistenza omertosa.

Era uno stacanovista, sfogava tutte le energie seduto sulla sedia del suo ufficio, perso dietro la più infinitesimale delle virgole. Pareva soddisfatto e compiaciuto di procurare straordinari ai suoi colleghi a fine turno, quando avrebbero voluto ritirarsi a casa ad abbracciare figli e cari. Lui aveva solo sua moglie e il fare tardi era la strategia per garantirsi il massimo comfort casalingo senza i tediosi resoconti della consorte che stanca dalla lunga giornata crollava.

La seconda maschera era per gli amici, quelli che si portava dietro dall’infanzia: i ragazzi del quartiere con cui aveva diviso le prime esperienze fin da bambino. Dopo di loro nessuno, non ne aveva sentito il bisogno di altri, gli amici erano un orpello di gioventù che da adulto riteneva superfluo. Sua moglie aveva degli amici, ma erano i suoi appunto, e lui cercava nei pochi contatti di ridurre al minimo il confronto con poche e banali parole, tanto da rendere la sua presenza ininfluente e scivolare via appena possibile dal fastidio di dover indossare la maschera della cordialità che non riusciva a reggere a lungo. Molto meno rischioso continuare a giocare sul terreno della prima senza confondere i ruoli: che gli amici di sua moglie vedessero l’Alberto succube e scarsamente coinvolto gli faceva gioco.

Con gli amici d’infanzia era l’Alberto che stava allo scherzo, lo faceva, ma più spesso lo subiva ridendo amaro dentro. Aveva imparato ad incassare i colpi senza darlo a vedere, rispondendo nei modi e nel gergo che insegna il quartiere. Lui era sempre la spalla di qualcuno che dava le battute. Si nasce comici, spalle si diventa. Ridevano insieme di e su tutto e tutti, era il loro modo di passare il tempo per ignorare il passare delle stagioni che li aveva visti bambini spensierati e ora prigionieri di scelte da adulti. Giocavano a calcetto per ricordarsi di loro stessi anche se il fiatone li tradiva, mantenendo i ruoli di sempre: quella pippa di Alberto in porta, lui lo sapeva e gli stava bene così.

Questo era stato il suo schema perfetto fino a quando non era comparsa lei, quattro maschere dentro le quali aveva ben incasellato tutta la sua vita, rispondendo con il controllo agli eventi subiti per scelta e non. Alberto non era una cattiva persona, era semplicemente un sopravvissuto, agli altri. Uno che per la paura della responsabilità delle proprie scelte si era lasciato vivere, preferendo per sé il controllo, finanche maniacale, degli eventi subiti. I parenti non aveva potuto sceglierli ovvio, ma non lo aveva fatto nemmeno con la sua sposa, con lo studio e il suo lavoro. Perfino gli amici, se li era ritrovati nel quartiere e sui banchi di scuola senza fare alcuno sforzo: loro lo avevano invitato a giocare a calcetto, lui se ne sarebbe rimasto tranquillamente a guardare i suoi cartoni animati preferiti.

Quattro maschere fino a quel momento. Poi era arrivata Veronica e costruirne appositamente per lei una quinta era stato inevitabile, ancora una volta si era sentito di non avere altra scelta, di subirla, anche se con piacere.

Avevano iniziato a vedersi regolarmente nella loro pausa-pranzo al parco dove si era svolto il loro primo incontro. Lei era seduta sulla panchina difronte, gustava la sua insalata “speciale” ricca di fibre, semi ecc.. ecc.., come gli spiegò poi. Alberto chino sul suo triste panino non l’aveva neppure vista, neanche lì alzava mai lo sguardo e il perché se lo andasse a mangiare all’aria aperta nel verde invece di restare in ufficio continuò per Veronica anche in seguito a rimanere un mistero. Non avrebbe potuto di certo spiegarglielo, il suo Alberto era un uomo amabile, quell’altro, meschino, lo aveva fatto fin dall’inizio per defilarsi da eventuali inviti di gruppo da parte dei colleghi, inviti che poi ovviamente non arrivarono mai, abitudine che comunque mantenne.

Quel giorno non seppe resistere Veronica nel vederlo accartocciarsi su se stesso nel tentativo disperato di salvare un filetto di prosciutto che alla fine cadde rovinosamente a terra dopo improbabili parabole. Rise Veronica in quel suo modo aperto e spontaneo attirando l’attenzione di Alberto. Il suono inconfondibile della risata di lei lo trascinò fuori dal suo mondo spento, la seguì con una risata deflagrante come non gli accadeva da tempo o forse mai prima. Risero come due bambini e così rimasero nei loro incontri successivi, leggeri e felici di vedersi in quella pausa rubata.

Veronica in quella condizione di leggerezza e felicità sembrava esserci, lui standole accanto la respirava e iniziava a divenirne parte condividendola. La luce che emanava, le cose che diceva, soprattutto come le diceva, lo rapivano. Era una ragazza carina, un tipo diverso dalla sua Sonia, ma di una bellezza non così appariscente da giustificare a suo avviso un tale trasporto. Non capiva, eppure nel vederla gli partiva un sorriso che si immaginava ebete, stampato sul suo volto, ma non poteva farne a meno. Che si trattasse di innamoramento non lo sfiorò neppure, non sapeva cosa fosse e non contemplava un sentimento che sfuggisse al controllo. Solo in seguito quando accadde l’irreparabile, nell’eco “le donne portano solo guai” degli amici, gli balenò l’idea di esser caduto in un inganno amoroso.

Non ritenendosi interessante agli occhi di lei pensò subito di creare per Veronica un uomo che potesse piacerle ed essere alla sua altezza. Provando ad immaginarlo iniziò senza accorgersene a trovare un po’ di se stesso. Aveva la sensazione che ogni volta che tentava di indossare la maschera lei provasse a sfilargliela, non per smascherarlo ma per andare più in profondità, per trovarlo, ma Alberto per primo non sapeva dove fosse e chi fosse. Camminando al fianco di Veronica iniziò sempre più spesso a dimenticare di indossarla, sentendosi bene, fino a quando non ne ebbe più bisogno, o almeno così credeva.

Di Veronica non sapeva molto, così come lei di lui. Lavorava nell’ufficio al piano di sotto, a parte questo delle loro vite concrete non si erano detti altro. Era una ragazza libera e discreta, i loro incontri erano come un tempo sospeso, fatto del piacere di stare insieme. Parlavano per lo più, anche se si faceva largo tra di loro il desiderio di andare oltre, eppure allontanare quel momento lo accresceva e sembrava non giungere mai il tempo di raccoglierlo. Era uno sfiorarsi e toccarsi, un pregustare. Veronica sapeva entrare negli argomenti in un modo per lui nuovo, affascinante come lei. Mentre parlava rimaneva come incantato dalla linee del suo volto, dalle labbra morbide color di fragola, da quel suo muovere le mani come voli di gabbiani, e voleva immaginarsi che anche lei dietro quel suo sorriso dolce e radioso lo vedesse con uguale desiderio.

Nel ripetersi degli incontri si radicò in loro l’illusione che quel tempo potesse protrarsi all’infinito come se il mondo che avevano lasciato fuori da quel loro giardino non esistesse. Alberto in particolare intuiva il rischio dell’ignorare le voci che lo avevano avvisato più volte, eppure scelse di non ascoltarle. I sogni non sono tali fino a quando non si scontrano con la realtà al risveglio. E quel che doveva accadere successe.

Sembrava che il destino avesse voluto giocare con loro facendoli sentire prima al sicuro per poi tirare su all’improvviso la rete. Alberto si trovò catturato dai suoi stessi inganni e Veronica si scoprì di colpo ingenua.

Era al supermercato in fila alle casse e non poté fare a meno di ascoltare i discorsi di quella che sembrava una coppia di coniugi dal solito cliché, o meglio il monologo di lei. Per ingannare l’attesa spontaneo fu per Veronica il girarsi per soddisfare la curiosità di dare un volto al misero succube, mai avrebbe potuto immaginarlo con quello di Alberto. Abitavano a due passi l’uno dall’altra e non si erano mai incontrati. Richiamati di colpo ad una realtà infelice lo choc creò tra i loro sguardi atterriti e increduli, una sospensione temporale che non sfuggi a Sonia. Di lì a poche ore tutta la sua fragile realtà si sgretolò. Non gli riuscì di negare, anche questa volta preferì subire gli eventi, difronte all’evidenza si sentì liberato dalla responsabilità di scegliere di confessare spontaneamente. Nessun tradimento carnale si era compiuto ma Sonia comprese, dai silenzi, dalle stentate risposte ad occhi bassi, ciò che lui negava anche a se stesso, un sentimento che tra di loro non c’era mai stato. Il dolore di quella verità svelata la portò in un attimo a sottrarsi dal bisogno che per anni entrambi avevo avuto l’uno dell’altra. Alberto si ritrovò fuori di casa, stupito dal sollievo che una parte di lui sembrava provare, come se cadendo di colpo quelle maschere gli avessero rivelato le menzogne su se stesso che si era andato costruendo e raccontando per starsene al sicuro nel suo mondo piccolo tenendosi lontano dalla vita.

Di Veronica al parco nessuna traccia, e nessuna notizia trapelò dal suo ufficio, sembrava scomparsa nel nulla. I rastrellamenti del quartiere nel tentativo di avvistarla non produssero alcun risultato. L’interesse per il lavoro precipitò e i sui colleghi stentarono a riconoscerlo quando chiese l’aspettativa.

Ora si ritrovava seduto su quella panchina, a fissarsi le punte dei piedi in una mattinata di lavoro per gli altri, per lui un giorno come un altro di vagabondaggio da riempire del nulla. Mentre ne era completamente immerso, il muso di un cane lo richiamò al parco. Un labrador, che seguendo la palla lanciata dal padrone, aveva deciso di fare sosta con il suo umido tartufo sulle ginocchia di Alberto in cerca di un contatto visivo e di un coccola prima di ritornare a correre dietro al suo gioco. Forse si sarebbe preso un cane, pensò. Di averne uno non gli sarebbe dispiaciuto ma Sonia non sopportava il loro odore, riteneva la loro cura troppo impegnativa per nulla considerando la contropartita affettiva. Alberto si era come sempre adeguato, per uno come lui che non coltivava forti convincimenti sui propri interessi era cosa facile, si manteneva ben saldo su quelli primari, conservando l’immagine di uomo semplice, basico. In realtà era un uomo che non si conosceva, fuggiva da sé stesso quasi come se temesse di scoprire qualcosa di spiacevole su di sé.

Stessa cosa era accaduta per la questione prole. Fece scegliere a Sonia, lei non affrontò neppure il discorso e lui la lasciò fare. Che non fossero arrivati, che non ne avesse voluti, preferì non chiedere, non affrontare l’argomento, millantando discrezione dietro l’assenza di intimità e dialogo tra di loro. Si era trovato a volte ad immaginarsi padre di una famiglia numerosa ma era solo come la fantasia di un ragazzino che presto cedeva il posto alla comoda realtà che tutto sommato trovava più adatta a loro. Forse oltre al sentimento ordinario delle responsabilità che i figli comportano, li accomunava quell’egoismo da eterni adolescenti che tanto ancora hanno da chiedere alla vita e comprendere di sé stessi, tanto da non potere cedere il passo, un tempo che finisce per non arrivare mai, perché avere figli fa diventare vecchi e sentirsi di colpo passato.

Ci ripensò a questa cosa dei figli mentre guardava mamme a spasso con i loro bambini e nonni con i nipotini a godersi la bella giornata di sole. Quei quadretti felici lo riportarono ai momenti passati con Veronica, in cui si era scoperto ad avere interessi, desideri, ambizioni che chissà come e quando aveva sepolto. Si ritrovò a domandarsi perché e quando avesse rinunciato a se stesso, e proprio in quell’instante la sua attenzione cadde su una scena che si stava svolgendo su una panchina non molto distante da lui.

Sedeva una donna dall’aria bonaria e confortante, una nonna delle favole, dai capelli raccolti grigio argentati, gli occhialini messi su un viso rotondo. Leggeva e di tanto in tanto le si sedeva accanto qualcuno. Lei allungava loro un sacchettino ad offrire caramelle o cioccolati, la distanza gli impediva nel vedere bene. Parlavano fitto, poi l’interlocutore di turno si alzava e se ne andava. L’aveva distrattamente osservata anche nei giorni precedenti. Il suo ripetersi iniziava ad incuriosirlo. Forse avrebbe dovuto provarci anche lui, si chiese, se non altro per verificare se fosse frutto della sua mente folle. Ma una volta seduto cosa avrebbe potuto dirle? Si sentiva impreparato. Aspettò nella speranza che qualcuno gli rubasse il posto, un alibi per rinunciare. Nessuno lo fece, sembrava aspettare lui. Così si decise e un passo dopo l’altro la raggiunse.

Passarono interminabili minuti fino a quando la donna si allungò verso di lui per il rito del sacchetto.

– Ne prenda uno, coraggio! – lo invitò, con una voce dal suono dolce ma deciso nel tono.

Alberto si sporse per confermarne il contenuto che immaginava: caramelle e cioccolatini dalle tante forme e colori. Guardò per poi rifiutare cortesemente.

La donna lo scrutò da sotto gli occhialini con un sorriso materno, poi mise la mano dentro al sacchetto e mentre rimestava gli disse – difronte ad una scelta varia di cui non si conosca nemmeno il contenuto si può rimanere disorientati e finire per non farne nessuna. Lei è un uomo cauto, sceglierò io per lei. – e gliene porse una quasi costringendolo ad accettare. Alberto nel prenderla colse subito quanto quello che le aveva appena detto lo descriveva.

– La assaggi e mi dica com’è, sono sicura le piacerà. – aggiunse

Aveva lo stomaco chiuso e di mangiarla non ne aveva proprio voglia. Lo fece per cortesia, e in quel momento si accorse che agiva su di lui la maschera della cordialità, era ancora lì. La assaggiò e non gli piacque ma per non mentire se ne stette zitto sperando che non glielo richiedesse.

Lei riprese a leggere, spiazzandolo. Altri interminabili minuti di silenzio in cui Alberto pensò di non aver superato un test, che forse avrebbe dovuto mentirle e dire che gli piaceva. Stava per andarsene quando la donna con lo sguardo ancora fisso sul suo libro gli chiese secco – Perché si è venuto a sedere qui? –

Una domanda così diretta proprio non se l’aspettava e gli scappò la verità – Non lo so, forse perché non so chi sono. – le parole gli uscirono dalla bocca come se a muovere le labbra non fosse stato lui.

– E vuole saperlo da me? – argomentò la donna alzando lo sguardo. Era una provocazione ma Alberto non la colse e pensò seriamente che lo stesse liquidando. Fece per alzarsi quando lei aggiunse – Non sarebbe il caso di iniziare a non cercare negli altri le risposte, ma in se stesso? –

– In tutta sincerità non saprei da dove cominciare. – le rispose con un filo di voce.

– Io inizierei dal cercare l’evento che l’ha spinto a rifugiarsi nell’invisibilità, per sfuggire a qualcosa che però alla fine lo ha reso prima di tutto invisibile a se stesso. –

Non capiva proprio di cosa stesse parlando e nel guardarla, aggrottando la fronte, la donna comprese che giustamente non riusciva a seguirla, quindi continuò – Non me la immagino un uomo che si sottrae alle responsabilità, anzi se ne assume fin troppe. Me la figuro come un uomo con un forte senso del dovere da finirne quasi schiacciato. Quando si tratta di se stesso, invece, lascia scegliere agli altri o al caso, la responsabilità di questo tipo di scelta la spaventa. Potrebbe essere la paura di fare scelte sbagliate, o forse la paura di scoprire attraverso le scelte qualcosa si se stesso che non le piaccia, o potrebbe esserci dell’altro ancora, una rinuncia a cercarsi come se la ritenesse una fatica inutile. –

La seguiva con difficoltà. Le resistenze di Alberto non le sfuggivano così si fece più diretta – Lei ha rinunciato a se stesso e sarebbe da chiedersi il perché e il quando. – Rimase in silenzio per dargli il tempo di assorbire le sue parole. Poi, mentre ad occhi bassi sul brecciame lui sembrava sforzarsi alla ricerca di quel momento senza riuscire però a trovarlo, aggiunse – Mi racconterebbe di suo padre? –

Suo padre. Su di lui non aveva molto da raccontare. Era un padre che usciva presto la mattina e si ritirava tardi la sera. Lavorava sodo come muratore per mantenere la famiglia, moglie e figli di cui in pratica non sapeva quasi nulla. A loro ci pensava la mamma, lo conoscevano attraverso gli occhi e le parole di lei che gli voleva bene e lo rispettava. Era un uomo di poche parole che portava i soldi a casa facendo il suo dovere di marito e di padre. Di lui conservava pochi ricordi, immagini più che altro: a tavola mentre mangiava, con la sigaretta in bocca, al volante, quelle poche volte al mare mentre leggeva il giornale, forse uno sguardo o un sorriso. Non aveva ricordi di conversazioni padre-figlio o di qualche lezione sulla vita che gli avesse lasciato, forse non ne aveva da dargliene o non sapeva come fare, di certo non ne aveva avuto molto il tempo, anche perché se ne era andato troppo presto.

– Di mio padre c’è poco da dire. Un gran lavoratore che vedevamo molto poco a casa. Famiglia numerosa sa com’è…Non ho avuto il tempo di conoscerlo, di lui ho pochi e sbiaditi ricordi. E’ morto quando avevo quindici anni. –

Fu troppo sbrigativo, provò ad insistere – Com’è successo? – gli chiese

Il suo sguardo rivolto verso il vuoto cambiò. Alberto resisteva a quel ricordo doloroso e lontano. Ci aveva messo una distanza tale che lo aveva portato lontano anche da se stesso. Resisteva quel quindicenne dentro di lui che se ne stava zitto e buono, per sopravvivere a quello che gli occhi di un ragazzo non avrebbero mai dovuto vedere: il padre in una pozza di sangue e la disperazione di sua madre, costretta poi inginocchiata a raccoglierlo quando niente più c’era da fare. Nessuno si era preoccupato di lui. Per sopravvivere aveva trasformato il terrore provato congelando i sentimenti. Era rimasto lì immobile con la speranza che nell’invisibilità lei, la morte, non lo avrebbe visto, ma così facendo era diventato invisibile anche a se stesso e alla vita.

– Una cosa improvvisa. E’ accaduto in pochi istanti sotto i nostri occhi. Un’immagine che….. – si fermò di colpo, comprendendo dove si trovava, dove la donna lo aveva portato. Fiumi di lacrime incontrollate iniziarono a rigargli il volto. Lacrime che non aveva mai pianto per un padre che non sentiva di conoscere, che si era impedito di versare scegliendo per sé la ragione e il controllo. Piangeva per se stesso, perché ora capiva che insieme a suo padre aveva sepolto anche quel ragazzo e da quel momento Alberto era diventato un fantasma.

Aveva trovato il punto dove tutto per lui si era fermato e da dove adesso poteva ripartire.

– Ora puoi dirmi la verità su quella caramella – gli disse con un sorriso la donna dandogli del tu.

– Era orribile! – gli rispose ridendo tra le lacrime.

– Lo sapevo! – e sorridendo ancora gli allungò di nuovo il sacchetto – Prendine un’altra, e questa volta sceglila tu. –

Ne scelse una per lui dall’aspetto invitante e se la mise in tasta – La mangerò più tardi, grazie. – Iniziava già a capire.

Si alzò intuendo che era arrivato il momento di andare. – Grazie infinite – la salutò commosso nella voce mentre sentiva ripartirgli il cuore. Lei gli fece un cenno sbrigativo con la mano come a sminuire ciò che aveva fatto per lui. Si rimise a leggere come se niente fosse accaduto, ma per Alberto era stato un miracolo.

Si allontanò senza voltarsi, non voleva sapere se ciò che gli era appena successo appartenesse al mondo della realtà o fosse solo il frutto della sua immaginazione. Si rimise in cammino mettendo un piede davanti all’altro, stavolta, guardando a testa alta davanti a sé.

Ogni racconto è come un figlio, nasce, lo accudisci e poi lo lasci andare per il mondo. Questo racconto ha in sé un’eccezionalità, non è nato da solo, è stato partorito insieme al suo gemello, il racconto di “Amina” dello scorso 14 febbraio. Anche se ho poi deciso di pubblicare quest’altro a distanza di più di un mese sono arrivati insieme, gemelli diversi ma comunque gemelli.

Seppur differenti per contesto e storia, il primo più fiabesco il secondo più attuale, in entrambi i casi i protagonisti perdono improvvisamente il padre da adolescenti. L’imprevedibilità e immediatezza dell’evento, che l’immagine del sangue amplifica con il suo scorrere fuori portandosi via la vita del genitore, si fissa nelle giovani menti di Sebastian e Alberto, generando nel terrore quel congelamento dei sentimenti e allontanamento da se stessi. Un allontanamento dalla vita come reazione al respingimento della morte, più che comprensibile.

I traumi sono sempre traumi ma quelli che ci colgono nell’infanzia e in giovane età sono quelli che più di ogni altro ci scavano dentro lasciando segni spesso nascosti perfino a noi stessi, divenendo parte di noi tanto da non riuscire più a distinguere noi da loro. Crediamo di averli mangiati e digeriti mentre sono loro che ci hanno fagocitato.

La morte è parte della vita ma solo una mente e un cuore, saggi ed equilibrati, possono accettarne con serenità tale postulato riuscendo a vivere con pienezza il tempo che ci viene concesso. I più faticano, ingannano l’attesa, si lasciano vivere al meglio che ritengono possibile. Non è facile l’equilibrio, che nel migliore dei casi perdiamo per poi riprenderlo, sanamente dinamico. Non è da meno la saggezza, c’è a chi arriva dopo tanta esperienza e a chi non arriverà mai.

E se la morte improvvisa sconvolge chiunque possiamo ben immaginare come possa stravolgere un anima giovane, in un momento in cui tutto è vita e il game over non è concepibile se non quando si dovesse presentare bussando alla porta. E a volte bussa chiedendo attenzione, costringe a crescere prima del tempo, e non sempre, anzi quasi mai si trovano le strategie migliori per farvi fronte. Penso non solo a Sebastian e Alberto ma a tutti quei giovani di oggi a cui questi tempi moderni (Pandemia e non solo) hanno tolto la spensieratezza dei loro giorni di bambini e adolescenti. Trovare nei sondaggi in cima alle loro risposte la morte e la malattia tra le loro principali paure ci dovrebbe far riflettere sul mondo che stiamo creando e consegnandogli. Ciò che è accaduto a Sebastian e Alberto è capitato ad altri ragazzi nella storia dell’umanità, ad alcuni la vita riserva prove dure da superare, ma far vivere le nuove generazioni nell’ombra mefitica della morte e della malattia, non significa crescere una nuova specie di uomini nella consapevolezza della caducità della vita, no di certo, è un procedere nella direzione opposta.

Se per Sebastian Amina diviene la porta aperta su se stesso che lo inizia allo scongelamento della sua anima, per Alberto il percorso si fa più complesso: c’è sempre una rottura degli schemi che si compie attraverso l’incontro con Veronica ma stavolta Alberto deve, un passo dopo l’altro anche se brancolante nel buio, raggiungere se stesso in quel tempo lontano, deve sentire anche se flebile il richiamo, il nascere in lui la volontà di cercarsi. Ci riesce con l’aiuto di un’altra donna, la vecchietta della panchina. Poco importa se questo processo sia reale o immaginario, è pur sempre un afflato femminile che gli parla, materno, capace con amore di far rinascere in lui la vita, di rimetterlo in cammino sulla sua strada. Per Alberto, che in realtà non aveva mai vissuto, è una rinascita, ancora una volta, come quando nasciamo lasciando il grembo materno, la luce oltre l’oscurità!

Che siano questi tempi particolarmente bui che stiamo attraversando, il passaggio obbligato dall’oscurità alla luce. Che sia una rinascita per l’Umanità e per ognuno, ciascuno dal suo buio verso la luce. Luminosa Rinascita!

Immagine di C. Tedeschini, “Maschere”, Tecnica Mezzotinto, Bulino e puntasecca su rame cotto