Vivir

Vivir

Erano le nove del mattino di una domenica di Luglio. Il caldo già asfissiante, alzandosi dall’asfalto, produceva un riverbero da visione di miraggio nel deserto, mentre le cicale dai campi intorno sembravano strillare disperate. Oltre loro si sentivano solo i tacchetti sulle pietre della signora Maria che, imbracciando un mazzo di gerbere gialle, avanzava spedita verso la tomba di suo marito. Paolo la seguiva osservandone da dietro la sagoma grassoccia, colto dallo stupore verso tanta energia nonostante la sua età avanzata.

Per fortuna le persone anziane hanno l’abitudine di alzarsi presto, tempo un’oretta e avrebbero finito, così che avrebbe potuto raggiungere i suoi a mare, loro erano già tutti lì a godersi il fresco! La città era deserta come il cimitero. Non si respirava per il caldo da diversi giorni e notti, ma Maria non poteva mancare l’anniversario della morte del suo amato, e Paolo, che si occupava di lei da quattro anni ormai, non poteva dirle di no, prima o poi doveva capitare in un giorno di festa! Del resto che colpa poteva avere quell’uomo per essersene andato in piena estate!?

Come sempre l’aiutava a prendere la scala, pulire la tomba, cambiare i fiori, poi, quando avevano finito, se ne andava a fare un giro per lasciarla sola un po’ con il suo Giuseppe a pregare.

Paolo non credeva in Dio, non ci credeva da quando gli aveva strappato i genitori, da ragazzo, e forse non ci aveva mai creduto, era solo una storia come tante che gli avevano raccontato i grandi e lui l’aveva presa per buona fino a quando non si erano affacciati i primi dubbi nati dall’incongruenza degli adulti.

Lasciando Maria, era solito aggirarsi fra le tombe, godendosi il silenzio e il verde dei cipressi che puntavano verso il cielo azzurro, i colori intensi che l’estate regalava. Non prestava mai attenzione a loro, ai defunti che zitti se ne stavano dentro quegli spazi stretti e sembravano guardarti da lì attraverso i ritratti, ricordo dei loro giorni migliori. Li ignorava, forse era un impulso inconscio a frenarlo, a non voler guardare il destino che lo attendeva. Ma oggi il caldo era troppo, spezzava il fiato e piegava le gambe, fu costretto a sedersi e si ritrovò davanti a lei.

Lo guardava, con quei suoi occhi grandi da ragazza aperti sul mondo. Labbra carnose, zigomi alti su guanciotte rosee e capelli mossi in una giornata di vento. Non era un ritratto di lei da giovane. Paolo lesse veloce data di nascita e morte. Era la foto della defunta colta nel pieno dei suoi anni. Un brutto male, un incidente improvviso…la meschina con la falce era arrivata a prendersela presto! Una fitta sottile lo colpì allo stomaco, lo chiamava a riflettere su ciò che rifiutava, su qualcosa che conosceva fin troppo bene, su cui non aveva il controllo, ragion per cui aveva scelto di non guardare, di accettare passivo, prendendo dalla vita ciò che veniva, muovendosi il meno possibile.

La osservava cercando in quegli occhi la vita della ragazza, delle risposte, ma era uno specchio in cui si rifletteva, in cui cercava se stesso.

Preso dall’immagine e dai suoi pensieri, non aveva notato un foglietto bianco piegato e infilato tra la cornice della foto e la lastra della tomba. Non fu il suo ateismo a fargli allungare irrispettosamente la mano per prenderlo, no, fu il desiderio di risposte a domande che aspettavano sepolte da troppo tempo. Lesse.

Mia amata, ti ho lasciata andare e non avrei dovuto, l’ho compreso troppo tardi, quando ti ho persa. Ora non potrò più condividere con te questa vita che mi resta. Non è più il tempo del fare, se non con altri e per altro. Una lezione che ho imparato a caro prezzo e non sprecherò, stanne certa, e te ne ringrazio così come per tutte le cose che da te ho appreso, allora senza comprenderlo, e che continuerò ad imparare. Però, nella speranza che tu possa ascoltarmi dal luogo in cui ti trovi, questo è ancora il tempo del dire. Così voglio dirti ciò che non ho avuto il coraggio di rivelare prima di tutto a me stesso.

Ho amato ogni cosa di te, dal suono della tua voce, che dolce pronunciava il mio nome, all’odore della tua pelle il cui profumo sentivo ancora su di me quando andavi via, come i capelli che ritrovavo in giro per casa. Ne ho ritrovato uno l’altro giorno e mi sono perso in un mare disperante di lacrime. E’ straniante avere qui tante cose di te mentre tu non ci sei più!

Ho amato i tuoi sorrisi che ne illuminavano il viso e il fragore delle tue risate quando scoppiavano all’improvviso. Il tuo sguardo sul mondo, il tuo modo di muovere le mani che accompagnavano racconti e progetti. Visioni che avevano la leggerezza del tuo passo di danza quando ti muovevi creando tra i fornelli.

Amavo sentirti cantare e veder muovere il tuo corpo. Il solo cingerti la vita era unione e appagamento per me di una sete che mai si placava. Con te ho condiviso emozioni, intimità e tenerezze mai provate prima.

Camminare al tuo fianco era muoversi all’unisono, il due spariva e si faceva uno, era vedere con gli stessi occhi: quelli tuoi, pieni d’amore per la vita e la bellezza del mondo, diventavano anche i miei.

Perdonami amore mio se ti ho lasciata andare. Mi difendevo dal dolore lancinante che provavo ogni volta che non eri con me. Ero come un tossico. Prendevo e non davo.

Perdonami per averti lasciato credere che nulla mi importasse di te. Sono stato uno schiocco che ha vissuto troppo a lungo nella paura e nella pavidità. E soprattutto nella mancanza d’amore.

Grazie a te ho imparato a prendere e dare amore, tardi, ma ci sono riuscito. Ho imparato a trasformare la paura quando arriva, a non averne della vita, un dono che non va sprecato, che va vissuto a pieno in ogni istante. Ora lo so, ora lo faccio, grazie amore mio!

Tuo per sempre, Giovanni.”

– Paolo! – Immerso nella lettura percepiva appena una voce in lontananza che lo chiamava. Nel ritornare lo attraversò rapido il pensiero che fosse la ragazza a pronunciare il suo nome e un brivido gli risalì lungo la schiena. Poi vide la signora Maria accanto a lui. – Paolo! – La donna non ricevendo risposta gli si era avvicinata strattonandolo. – Mi sono preoccupata, non ti vedevo tornare e sono venuta a cercarti. Cosa fai? –

– Nulla Maria, scusami, il caldo. Tu come stai? –

– Ora che ti ho trovato meglio. Andiamo? –

Quelli che seguirono furono per Paolo giorni di tormenti e notti insonni. Non riusciva a pensare ad altro, quelle parole gli erano entrate dentro squarciandolo. Preso come da una febbre si muoveva in un delirio interiore. Il vecchio Paolo avrebbe dato ogni cosa pur di tornare indietro nel tempo e non leggere quella lettera, ma la parte nuova di lui che ne era emersa preferiva di gran lunga quel tormento, essere uscito da quel porto sicuro e calmo dove si moriva un po’ ogni giorno. Adesso in quella tempesta si sentiva vivo e sentiva che comunque fosse andata a finire, morto o fuori di lì in salvo, stava vivendo.

Alla fine vinse lui, il Paolo nuovo. Era il tempo delle risposte. Più e più volte si era chiesto se la sua fosse solo una fuga, da una vita che non sentiva più sua. In realtà non lo era mai stata, la sua era quella non comune del giramondo, ma non aveva mai avuto abbastanza coraggio per abbracciarla, si era accontento, di essere uno fra tanti. Ora riusciva a vederla e seguirla. Quindi no, la sua non era una semplice fuga sulla scia di una fantasia, per lui era molto di più, era realizzare il suo cammino di vita.

Scrisse una breve lettera a sua moglie e ai suoi cari. Non avrebbero capito. In ogni caso lasciarli non averebbe fatto meno male che continuare a rimanere loro accanto mentendo. Prese uno zaino che custodiva in fondo all’armadio, un ricordo dei tempi in cui ragazzo si era sentito se stesso, e ritrovando quel ricordo lo afferrò sentendo che sarebbe stato l’inizio di un viaggio che lo attendeva. Mise lo zaino in spalla e uscì alle prime luci dell’alba.

Ai piedi di un piccolo tempio una mano si allungò per prendere un biglietto piegato infilato tra le pietre e lesse.

Ho viaggiato per mari e monti, pianure sconfinate, valli e altipiani desertici, foreste tropicali. Ho seguito fiumi che attraverso cascate e rapide mi hanno condotto verso il mare aperto in cui ho navigato. Ho scalato montagne sempre più alte verso cime innevate dalle quali spiccando il volo come un’aquila ho potuto godere di panorami mozzafiato. Ho ammirato i molteplici colori del mondo, animale, vegetale, minerale e ogni sua bellezza. Incontrato popoli e genti, condiviso e amato insieme a loro. Ho vissuto seguendo quello che la mia anima chiedeva nel rispetto di me stesso, degli altri e del mondo che mi ha accolto. Avevo bisogno di spostare il mio orizzonte esteriore affinché quello interiore facesse altrettanto arricchendosi. Ho visto finalmente me stesso e Dio in ogni cosa con il suo infinito amore. L’Uno che si fa molteplice per ritornare all’Uno.

Ora sento di restituire a te che stai leggendo ciò che un giorno qualcun altro ha dato a me allo stesso modo. Non conta tanto ciò che si fa ma ciò che si è, essere presenti a se stessi ed in ogni istante, il fare viene di conseguenza. Ciò che conta è rispondere alla chiamata di ciò che sei perché si compia. Le risposte alle nostre domande arrivano, sono ovunque intorno a noi, basta saper ascoltare, essere pronti a farlo. In una parola, che detta in spagnolo trasmette bene il suono dell’imperativo, ciò che conta è vivir!

Paolo”

Ho sempre avvertito la sensazione che la vita non potesse essere tutta qui, che la nostra esistenza fosse molto di più di questo corpo, bellissimo nelle sua straordinaria complessità, ma pur sempre un involucro temporaneo, un’ampollina a contenere una goccia del mare, un’anima, piccola cellula di uno Spirito più grande e vasto. E’ un sentire che credo mi abbia accompagnato dalla nascita, da quando ho ricordo delle mie riflessioni sull’esistere e sul Creato. Lo percepivo ovunque anche se non ne trovavo inizialmente le parole adatte, quel concetto di Uno che albergava in me, custodito in qualche recesso della mia anima, come un oggetto messo in valigia per affrontare il viaggio terreno. Solo in seguito le letture sono arrivate a sostenere e confermare queste mie visioni interiori e dare un nome alle cose attraverso la definizione di concetti. Sono immensamente grata di questo sentire perché mi ha permesso di affrontare le sfide che questa vita mi ha proposto e continua a fare. Mi ha dato la possibilità di abbracciare me stessa e il mio cammino spronandomi a trovare il coraggio per vedere la mia strada e sceglierla, anche quando ha attraversato foreste buie o paesaggi avvolti nella nebbia.

Sforzandoci di vedere le cose da un’altra prospettiva si ha la possibilità di superare la paura di perdere le piccole certezze che abbiamo, di cui bisogna imparare a godere nella loro semplicità ma non trasformale in sicurezze facendole diventare come gabbie che dovrebbero difenderci da chissà cosa. La morte è un traguardo inevitabile da cui nessuna gabbia, nemmeno dorata, può difenderci. E mentre ce ne stiamo al riparo ad aspettarla, rinunciamo volontariamente ad un volo di libertà, che rimanendo lì dentro ci sarà impossibile sperimentare. Per chi ci crede poi la morte è solo un passaggio, una trasformazione da bruco in farfalla. Qualcuno dirà che non ne abbiamo le prove! Certo che no, è un atto di fede, un sentire appunto. Mettiamo pure che sia una baggianata, un sogno ad occhi aperti, che però ci consente di abbandonare il trespolo, aprire le ali e spiccare il volo. A me già solo questo basta!

Dovremmo vedere la vita dalla prospettiva di un videogame: una volta avviata la partita va giocata, non starsene fermi in un cantuccio. Non bisogna fare chissà quali cose straordinarie, basta seguire le nostre paure, come mollichine di pane, per trovare la strada. Sono i mostri della nostra immaginazione che spariscono una volta accesa la luce nella stanza buia, ma anche loro servono come cartine di tornasole. Dietro le paure si nascondono le sfide che ci attendono chiamandoci sul nostro cammino. Ci vuole coraggio, ma c’è sempre tempo per trovarsi, anzi quando si è più avanti negli anni si scopre una leggerezza che da giovani non si aveva, a quell’età aiuta più l’incoscienza e la ribellione per cercarsi.

Voglio immaginare che quando esprimiamo noi stessi si raggiunga la felicità di cui l’intero Universo partecipa, godendone di riflesso insieme a noi che lo alimentiamo con la nostra esperienza realizzata. Voglio immaginarmi che l’Uno si espanda ogni qualvolta un’anima raggiunga la sua felicità, arricchendone lo Spirito, mentre al contrario si contragga quando ciò non accade, semplicemente così, senza giudizio, al di là del bene e del male. E aggiungo, citando L’uomo delle favole, “L’Universo suona una musica armoniosa perfetta in ogni sua più piccola nota o pausa, l’uomo può decidere se danzare o meno su questa musica. Se sarà capace di ascoltarla inizierà a danzare al ritmo armonioso dell’Universo e diventerà anch’egli parte di quella musica perfetta….”

Solitamente con il rallentamento dei ritmi della frenetica routine quotidiana, il tempo delle vacanze estive diventa quello più adatto per prendere le giuste distanze dalle cose, ritrovare se stessi, rivedere le priorità e i propri bisogni reali in vista di un rinnovato inizio a Settembre. Ragion per cui dedico questo racconto (arrivato pare a completamento dei due precedenti) a coloro che hanno scelto con coraggio di “vivir” ma ancor di più a tutti gli altri con l’augurio che possano riuscire a spiccare il loro volo. Illuminante Ferragosto!

Immagine “Bagnanti ad Asniéres” di G. Seurat

2 Commenti su “Vivir”

  1. “Tempus fugit”, il tempo di vivere è oggi, nessuno potrà restituirci le esperienze che ci siamo negati di vivere. La paura di vivere è ciò che ci impedisce di essere felici. Molte persone esistono, ben di rado vivono. Grazie Monica.

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